Mettersi nei panni di chi soffre
Non solo che ci sia da mangiare – e che ne resti – quasi per esorcizzare i ricordi di una fame che altre generazioni hanno conosciuto. Ma anche cultura, arte… E poi giochi, luci, fuochi artificiali…
Tutte cose belle, tutte cose la cui bellezza speriamo che entri un po’ di più nella nostra vita e ci doni gioia.
Nella tradizione della nostra fede però sta anche qualcos’altro: la porta aperta. Ai familiari, i vicini e anche al lontano. Al ricco ma soprattutto al povero. La Parola di Dio ci ricorda che il Signore più dei canti e delle preghiere, più del profumo dell’incenso e delle musiche ama che noi gli offriamo scelte concrete di amore e opere di giustizia. La Sua giustizia non è fare le parti uguali per tutti, ma dare ad ognuno secondo il suo bisogno per metterlo in grado di donare a propria volta.
V’invito come tutti gli anni quindi a vivere questa nostra festa con atti di riconciliazione verso le persone a voi vicine ma da cui incomprensioni, difficoltà, litigi, vi hanno allontanato.
V’invito a coltivare quell’empatia che ci fa mettere nei panni di chi soffre più di noi. Quell’intelligenza che sfugge alle facili semplificazioni che sostituiscono la profondità del ragionamento con il volume della voce. A far crescere in voi la capacità di ascoltare, senza pregiudizi e precomprensioni: con tutto noi stessi. E il desiderio di crescere, di lasciare che tutto quanto di nuovo e di bello non è ancora entrato nella nostra vita possa farlo e possa cambiarci.
Le situazioni di povertà che vediamo attorno e in mezzo a noi (qualcuno, illudendosi, credeva che non esistessero più) rischiano di diventare invece strutturali cioè non passeranno. Dovrà cambiare il nostro modo di rapportarci ad esse. Dovremo depositare le nostre paure, il timore di rimetterci in prima persona, di avere meno di quel che ora abbiamo.
Perché se avremo più giustizia, avremo più serenità e più gioia e più fratelli con cui fare festa.